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13:42 28.12.2018URL abbreviato
Mario Sommossa da: sputnik
Tutti gli italiani dotati di buon senso dovrebbero ringraziare il precedente Ministro degli Interni, Minniti, e soprattutto l’attuale responsabile del Viminale, Salvini, per avere ridotto il numero degli arrivi di clandestini sulle nostre coste. Nessuno s’illuda però che la loro azione abbia risolto definitivamente il problema.
Perfino i proclami sul fatto che tutti gli abusivi oggi gia’ presenti saranno rimpatriati nel loro Paese d’origine si dimostrerà, nei fatti, una totale chimera. Le ragioni non dipendono certo dalla volontà del nostro Ministro ma basta fare due conti: che gli irregolari presenti nel nostro Paese sono stimati essere almeno 700.000 e i rimpatri effettivamente realizzati nell’anno in cui sono stati più numerosi non sono arrivati nemmeno a 7000.
Il calcolo è semplice: supposto, per assurdo, che non ne arriveranno più, per espellere tutti quelli che non hanno diritto a rimanere occorrerebbero almeno cento anni. E’ per questo che, anche se adesso nessuno lo ammetterà (tantomeno Salvini), dopo le elezioni europee, si lancerà una nuova grande sanatoria. Anche sul fatto che non ne arriveranno più, è meglio non farci illusioni.
Il fenomeno migratorio, lo si sa, non riguarda solamente il nostro Paese e nemmeno soltanto l’Europa. Centinaia di migliaia di persone si muovono, di solito senza documenti, in ogni parte del mondo. Nel sud est asiatico partono dall’Indonesia verso la Malesia, o da tutti i Paesi verso l’Australia. Della questione Rohinga in fuga verso la Tailandia ne han parlato tutti i giornali. In Sud America, oltre ai minori ma continui spostamenti tra uno Stato e l’altro, ce ne sono oggi migliaia che fuggono dal Venezuela, ridotto in miseria da Maduro, verso la Colombia. Fino a poco fa, erano gli stessi colombiani a spostarsi all’interno del Paese vittima della guerra civile o cercare rifugio nei Paesi vicini. In Medio Oriente le guerre che hanno toccato l’Iraq, la Siria e lo Yemen hanno causato spostamenti biblici d’intere popolazioni. Per dare un’idea, il Libano, piccolo Paese di meno di 6 milioni di persone, ospita ufficialmente un milione di rifugiati siriani più circa mezzo milione di non registrati. A costoro si aggiunge una vasta comunità di rifugiati palestinesi, oramai considerati stanziali, stimata in almeno 450.000 individui. La Giordania non è in una situazione migliore. I palestinesi stabilitisi nei decenni passati sono circa 2 milioni. Gli iracheni fuggiti prima a causa dei bombardamenti americani e poi dal dilagare dell’ISIS sono circa 60.000 e gli ultimi arrivati, i siriani, sono almeno 700.000 e sono ospitati in campi profughi tra cui il più popolato è quello chiamato Zaatari con 80.000 rifugiati. Per dare un’idea di ciò che significhi, basta considerare che, secondo un rapporto dell’UNCHR, vi avvengono almeno 80 nuove nascite ogni settimana. Anche il Kurdistan iracheno (5 milioni di locali) è “invaso” da un milione e quattrocentomila “rifugiati” di cui la maggior parte sono iracheni oltre a turchi, iraniani e palestinesi.
Tra tutti è la Turchia il Paese che vanta (sic!) il maggior numero di siriani scappati dalla guerra a partire dal 2011. Oggi se ne contano ufficialmente tre milioni e mezzo ma almeno un altro milione è presente senza essere schedato. Nella sola Istanbul vivono oramai circa 560.000 siriani.
E’ naturale che la presenza di un grande numero di stranieri, soprattutto se omogenei tra loro per lingua o provenienza, è destinato a essere percepito come un pericolo per le popolazioni autoctone. In molti casi, di là dall’immediato costo economico solo in parte supportato a livello internazionale, la loro presenza causa aumento del lavoro nero, disoccupazione e perfino aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Senza contare gli shock culturali derivanti da lingue, abitudini ed esigenze diverse. Ovunque, infatti, sono sempre più frequenti le proteste degli autoctoni, le manifestazioni di “rigetto” e gli scontri anche violenti.
Il fenomeno che più tocca l’Europa, tuttavia, ha origine nel continente con il maggiore aumento delle natalità: l’Africa. L’ONU stima che nel 2015 erano 34 milioni gli africani migranti di cui 21 milioni interni al continente e 13 all’esterno.
A parte i marocchini che hanno smesso di emigrare e le poche centinaia di tunisini che hanno ripreso a farlo, da noi arrivano principalmente dalle zone sub sahariane: Nigeria, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Guinea e anche Eritrea, Etiopia e Corno d’Africa. Si tratta, nel 90% dei casi, di cosiddetti “migranti economici”, cioè di persone che puntano all’Europa per la ricerca di condizioni di vita migliori per se o per i propri figli. Gli accordi con i Paesi di origine per il possibile rimpatrio o sono rifiutati dai loro Governi oppure, anche quando sono sottoscritti, non vengono rispettati se non in minima parte. I governanti locali sono ben felici che una parte dei loro abitanti se ne vada altrove. Oltre ad essere per loro un problema in meno, se quegli emigrati riescono a raggranellare soldi (in modo onesto o disonesto, che importa a loro?) nei Paesi di arrivo, li mandano indietro sotto forme di rimesse e rimpinguano così il Pil dello Stato da cui sono arrivati.
Pensare che la riduzione di queste partenze si ottenga con l’aiutare lo sviluppo economico dei Paesi africani sottosviluppati è un riempirsi la bocca e mette in pace le coscienze, ma non risolve il problema né nel breve né nel medio periodo.
Studi condotti dalla Banca Mondiale hanno valutato che l’incremento del reddito pro-capite medio dagli attuali 2/3 mila dollari all’anno fino ai 7/9 mila, anziché ridurre il desiderio di emigrare, lo aumenta. E’ soltanto quando saranno superate queste cifre che si creeranno condizioni tali da non far desiderare la partenza. Inoltre se, come sta accadendo, la crescita del PIL è inferiore al tasso di crescita della popolazione, il reddito procapite non puo’ certo crescere. Sui quarantasette Stati dell’Africa sub-sahariana, solo sette hanno un reddito procapite superiore ai 9.000 dollari e tutti gli altri ne sono ancora molto lontani. In altre parole, per portare il livello di reddito medio agli 8.000 euro occorreranno decine di anni mentre, nel frattempo, il desiderio di
emigrare potrà solo aumentare.
Cinquanta anni fa il continente africano era abitato da meno di 800 milioni di persone e oggi siamo a circa 1 miliardo e 300 milioni. I demografi stimano che nel 2050 gli africani saranno 2 miliardi e nel 2100 potrebbero arrivare a quattro. A questo punto, dovremmo immaginare quale sarà la pressione migratoria che spingerà interi popoli verso l’Europa. Se la cifra sarà veramente quella, potremmo fare tutte le donazioni e gli investimenti che desideriamo oppure costruire muri perfino nel mare, ma non sarà mai possibile arrestare completamente una tale massa di persone.
Certo, ognuno di noi si sente più buono se continua a ripetersi che gli stiamo aiutando “a casa loro”. E si sentono ancora “meglio” quelli che fanno donazioni per quei poveri bambini denutriti o ammalati le cui immagini ci sono continuamente trasmesse in televisione da ONG in cerca di fondi.
Se accettiamo però l’idea che il fenomeno debba essere affrontato in modo razionale, occorre avere il coraggio di dirci che, se non si frena l’aumento della popolazione in quel continente, non basteranno mai i nostri soldi e, per i più “cattivi”, nemmeno i nostri fucili. Gli esseri umani sulla terra sono gia’ sette miliardi e mezzo e d è sempre l’ONU a stimare che nel 2100 si potrebbe arrivare addirittura a 11 miliardi (qualche altro studioso ipotizza perfino il numero di 16 miliardi di cui 10 in Paesi a basso o medio reddito). Purtroppo, sono quegli stessi studi a confermare che a trainare la crescita sono soprattutto gli africani. Secondo l’OMS, ogni anno 214 milioni di donne di Paesi poveri rimangono incinte senza desiderarlo perché non conoscono o non hanno accesso a metodi contraccettivi.
Se questa è la situazione, l’unica strada (e la più fruttuosa) da seguire è quella intrapresa dalla Regione Lombardia (su stimolo dell’Associazione Luca Coscioni) che, senza escludere altre forme d’intervento, ha deciso di agevolare l’accesso per le donne africane alla medicina contraccettiva. E’ stato, infatti, stanziato un milione di euro tutto destinato all’Africa per finanziare la consapevolezza e l’utilizzo della pianificazione familiare su base volontaria.
Sicuramente, se tale iniziativa restasse limitata all’azione della Lombardia non potrà avere un grande impatto. Tuttavia, se i Paesi sviluppati, invece di investire tutti i fondi in operazioni che troppo spesso finiscono con l’arricchire spesso le tasche dei locali governanti li destinassero a un’informazione sessuale corretta e donassero i vari meccanismi contraccettivi, forse sia gli africani sia noi europei potremmo trovarci davanti ad un futuro un po’ più sano e sereno.