Nella giornata di ieri si sono rincorse voci e indiscrezioni secondo cui sarebbe già sfumata la candidatura di Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica. Il Cav ha in effetti pochissime chance di diventare il prossimo inquilino del Quirinale, per la difficoltà di aggregare voti al di fuori dei partiti di centrodestra, necessari per raggiungere la maggioranza assoluta al quarto scrutinio. D’altra parte, è anche vero che tra tutti i nomi che circolano è quello che sulla carta potrebbe partire con il maggior numero di voti. Gli mancherebbero una sessantina di voti e da qui in poi tutto potrebbe succedere…

Sempre, s’intende, che abbia davvero il sostegno dell’intero centrodestra. Ed è proprio questo il punto. Solo per la levata di scudi della sinistra in questi giorni – che per l’occasione ha rispolverato un antiberlusconismo d’antan, che sembrava definitivamente sepolto con la riabilitazione del Cav come argine ai sovranisti – i partiti di centrodestra dovrebbero portare avanti quasi per principio la candidatura di Berlusconi. Ma evidentemente, qualcuno nel centrodestra ha altri piani. Salvini pare si sia convinto che con Draghi al Quirinale avrebbe spalancate le porte di Palazzo Chigi in caso di vittoria nel 2023. Non ci scommetteremmo un euro (sulla vittoria, figuriamoci sull’ingresso a Chigi). In ogni caso, i sopraffini “strateghi” all’opera non sembrano rendersi conto che i loro “piani B” hanno qualche chance di successo solo se la candidatura di Berlusconi regge fino all’ultimo, cioè fino alla quarta votazione, e la sinistra è costretta a farci i conti per davvero.



Dai retroscena di queste ore l’impressione è che Denis Verdini stia già mandando in vacca qualsiasi abbozzo di strategia del centrodestra per il Quirinale. Difficilmente Berlusconi sarebbe disposto a sostenere con altrettanta energia un candidato di area centrodestra che non sia lui, o lo stesso Mario Draghi, che il Cav (come il Pd) vuole fortissimamente tenere a Palazzo Chigi. E chi sarà chiamato, come al solito, a raccogliere i cocci? Gianni Letta, convincendo Berlusconi che non ci sono alternative ad una figura di sinistra, naturalmente una che sia in grado di offrirgli garanzie, e che prima farà buon viso a cattivo gioco, meglio sarà. Un copione già visto non solo nell’ultimo decennio, ma durante tutto il ventennio berlusconiano.



Se queste nostre considerazioni sono fondate, il centrodestra si è già liquefatto e uscirà con le ossa rotte dalla corsa per il Quirinale.

Il problema del centrodestra, a nostro avviso, è che ormai è una coalizione fantasma. Governa molte regioni, ma solo perché l’elezione diretta dei presidenti di Regione favorisce le coalizioni e la tenuta delle maggioranze. A livello nazionale i partiti che dovrebbero far parte del centrodestra non solo non governano insieme da ben 11 anni, ma a ben guardare in questi 11 anni non sono stati insieme nemmeno all’opposizione: alcuni infatti sono entrati a far parte di governi di sinistra o li hanno sostenuti.

Ci vuole molto ottimismo per pensare che le stesse leadership che hanno miseramente fallito nell’individuare candidati vincenti alle ultime amministrative, in due città chiave come Roma e Milano, siano in grado di aggregarsi oggi attorno ad una personalità con chance di successo e di sostenerla fino alla elezione al Colle.

Per Alberto Mingardi, come ha spiegato nell’articolo di ieri dal titolo “Il centrodestra e il tempo perduto”, sul Corriere della Sera, il problema del centrodestra nella elezione del prossimo presidente della Repubblica sta nella mancanza di figure d’area “quirinabili”. Dopo trent’anni, sostiene Mingardi, il centrodestra non ha “personalità che possano essere considerate all’altezza del Colle”, che “godano se non della simpatia almeno del rispetto di chi sta dall’altra parte”. I partiti di centrodestra “non sono riusciti a far crescere un ceto politico autoprodotto”. La linea sovranista e populista avrebbe “consigliato a molti, accademici, professionisti o imprenditori, di stare alla larga”. La “prossimità” ai partiti di centrodestra “è vissuta, ancora oggi, come una sorta di macchia sul curriculum”.



A pesare è “l’assenza di una prospettiva”, di “un nucleo di principi”. “Bravissimi a prendere i voti”, i leader del centrodestra non sanno come “incidere sul Paese e sui suoi apparati” un minuto dopo aver vinto le elezioni.

Su Atlantico Quotidiano non siamo mai stati teneri con i partiti di centrodestra, non abbiamo risparmiato critiche anche feroci. L’assenza di prospettiva, la debolezza dei principi, l’incapacità di incidere sul Paese e sui suoi apparati una volta al governo, sono gravi handicap che abbiamo più volte sottolineato e ne siamo pienamente convinti. Ma sono solo una parte del problema, e nemmeno la più rilevante, quando si parla di deficit di ceto politico e mancanza di personalità d’area “quirinabili”.

In questo, lo osserviamo con stima e amicizia ma con franchezza, l’analisi di Mingardi è omissiva.

Innanzitutto, è proprio vero che il centrodestra non ha personalità d’area “quirinabili”? Rischia questa di essere una premessa data troppo per scontata e frutto di bias politico. Se andiamo a scorrere i nomi che circolano solo in questi giorni, dunque senza troppi sforzi, troviamo la presidente del Senato Casellati, l’ex presidente della Camera Casini, l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex ministro degli affari esteri e nuovo presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini, e ancora Gianni Letta e Letizia Moratti. Ma perché non pensare – e stupisce che ad un liberale come Mingardi non siano nemmeno venuti in mente – a due liberali doc come Antonio Martino e Carlo Nordio? Quanto allo stesso Berlusconi: una figura certamente “di parte”, la cui responsabilità istituzionale e fede europeista però sono oggi riconosciute anche dai suoi avversari – a meno che tale riconoscimento non sia insincero e strumentale.



Ora, si può discutere a lungo sulle chance che queste personalità avrebbero di venire elette, che in gran parte dipendono dalla volontà dei partiti di centrodestra di trovare un accordo e dalla capacità di sostenerne la candidatura davanti alle altre forze politiche. Ma questa è una difficoltà che avrebbe anche il Pd, diviso com’è al suo interno, con i propri nomi. Ricordiamo tutti la fine che fece la candidatura di Romano Prodi nel 2013.

Le personalità di centrodestra citate non sarebbero “all’altezza del Colle”? Non esprimiamo giudizi sui singoli, ci limitiamo però a osservare che lo sarebbero almeno quanto le personalità di sinistra che vengono nominate in questi giorni. Non meno “di parte”, non meno preparate. Cosa troviamo nelle “rose” di sinistra? Mediocri funzionari di partito e dirigenti pubblici la cui immagine è elevata da incarichi avuti grazie al partito e coltivata negli anni dalla stampa amica.

Il punto vero della questione ci pare essere che in un panorama mediatico e culturale fortemente egemonizzato dalla sinistra, con vertici istituzionali e apparati statali da almeno un decennio occupati dalla sinistra, è la sinistra a distribuire patenti di rispettabilità politica e di “quirinabilità”, un aspetto che non dovrebbe sfuggire ad un osservatore attento come Mingardi. I “quirinabili” di area centrodestra non hanno nulla da invidiare a quelli di sinistra, se non che non hanno la tessera del Pd.

Come non dovrebbe sfuggire un altro dato politico: se sono pochissime, forse nessuna, le personalità di centrodestra a godere “almeno del rispetto di chi sta dall’altra parte”, è soprattutto per l’incessante ricorso alla delegittimazione e alla demonizzazione dell’avversario da parte della sinistra, che sembra riconoscere un certo grado di rispetto agli avversari solo quando elettoralmente innocui – rispetto sempre revocabile, come vediamo in questi giorni con Berlusconi.



Dunque, occorre porsi la fondamentale domanda: chi decide se una personalità è “quirinabile” e degna del rispetto degli avversari? Certo, se sono Corriere, Repubblica e Stampa a decidere, ne troveremo molto poche tra le fila del centrodestra.

E da qui ci colleghiamo all’altro tema toccato nell’articolo di Mingardi: i molti accademici, professionisti o imprenditori che preferiscono “stare alla larga” dall’impegno politico nei partiti di centrodestra, perché la “prossimità” con quell’area politica viene vissuta come una “macchia nel curriculum”. È proprio così, una macchia, ma anche in questo caso, bisognerebbe chiedersi il perché senza omissioni o risposte comode. Colpa della linea sovranista e populista? Certo, per come è stata violentemente demonizzata anch’essa dall’establishment. Ma davvero si può imputare solo alla linea sovranista e populista degli ultimi cinque anni la mancanza di accademici, professionisti o imprenditori nel ceto politico del centrodestra, o addirittura di figure “quirinabili”, che com’è noto richiedono una decantazione di molti più anni? Se così fosse, con la sua linea europeista e “istituzionale” Forza Italia ne sarebbe piena, e negli ultimi anni avrebbe completamente rinnovato la propria classe dirigente e i suoi gruppi parlamentari. Cosa che evidentemente non è accaduta.

Lo stesso Mingardi nel suo articolo ricorda un tempo, negli anni ’90, in cui il centrodestra portò in Parlamento pensatori del calibro di Miglio e Colletti, ma anche tecnici e imprenditori. La cosiddetta stagione dei professori. Poi cosa accadde? Certo, furono messi da parte, in qualche modo oscurati anche dal “partito-azienda” e dalla particolare leadership di Berlusconi.



Ma proprio quella stagione e le successive mostrano come il problema non nasca oggi con la linea sovranista e populista. Alle difficoltà di convivenza con un leader come il Cavaliere, e con le sue “corti”, ne sopraggiunsero altre, che ci riportano alla demonizzazione, al marchio a vita su chiunque osasse allora schierarsi con Berlusconi, e su chiunque osi oggi avvicinarsi a Salvini e Meloni, rendendolo automaticamente unfit, squalificato, come possibile figura istituzionale. Quel centrodestra, quella Forza Italia, che portavano in Parlamento personalità di spessore in molti campi, venivano demonizzati dalla sinistra, dai media e dall’establishment di allora, esattamente come oggi vengono demonizzati sovranisti e populisti, fino a negargli la legittimità ad ambire a ruoli istituzionali. Non da oggi infatti il centrodestra ha difficoltà a indicare proprie personalità per l’elezione al Quirinale.

Ma ce lo siamo scordati il trattamento riservato agli accademici, ai professionisti e agli imprenditori – spesso guarda caso di orientamento liberale – che si avvicinavano al centrodestra berlusconiano? Significava molto spesso la ghettizzazione nel proprio ambiente, finire nel tritacarne mediatico, mettere in gioco la propria carriera accademica o le grandi commesse: in sostanza perdere rispettabilità nei salotti che contano. Questo valeva vent’anni fa con il centrodestra berlusconiano, vale oggi con Salvini e Meloni. Per non parlare, poi, dell’altissimo rischio di finire nel mirino della magistratura. I meccanismi che allontanano personalità di valore da un impegno politico nei partiti di centrodestra, o che le sconsigliano una certa “prossimità”, sono medesimi da quasi trent’anni.

Quindi, se il ceto politico del centrodestra è quello che è (ma francamente a sinistra non ci pare di scorgere premi Nobel) è anche per lo scarso coraggio di accademici, professionisti e imprenditori, soprattutto di coloro che si definiscono liberali, che preferiscono non sporcarsi le mani, non perdere le entrature “giuste”, raggranellare qualche posto di sottogoverno o di consulenza, qualche finanziamento, non perdere la rubrica o la collaborazione editoriale. Preferiscono, insomma, restare alla corte della sinistra e al calduccio dell’establishment e da lì, semmai, pontificare sui mali che affliggono la destra.

Dovranno fare i conti, prima o poi, con un dato: la “Competenza” europeista, non la destra becera, ha guidato il Paese per nove degli ultimi dieci anni, non ci sembra con esiti brillanti, e tanto meno liberali. Solo nell’ultimo anno, con Mario Draghi a Palazzo Chigi, il competente per eccellenza, il Paese ha conosciuto la più inquietante deriva illiberale e statalista della storia repubblicana, con ferite profonde e difficilmente rimarginabili ai diritti di proprietà e alle libertà personali.