E allora l’Iraq? E allora Belgrado? Un modo per dire “tutti colpevoli, nessun colpevole”, potendo contare su una disinformazione trentennale che nel frattempo ha rimosso fatti e circostanze delle guerre passate e dei crimini commessi
Quante volte, nei talk show, o banalmente nelle discussioni da social network (il bar sport degli anni 10 e 20 di questo secolo), ad un argomento critico sulla guerra di Putin sentiamo che l’interlocutore risponde con una raffica di domande sugli Usa? Putin ha invaso l’Ucraina, ma “e allora l’invasione dell’Iraq?” “E allora il bombardamento di Belgrado?” “E allora la Libia?”.
Questo tipo di risposta è molto frequente e non è casuale. È una vecchia tecnica targata KGB che risale alla Guerra Fredda e che gli analisti americani hanno ribattezzato “whataboutism”, perché in inglese questa contro-domanda è “and what about (Vietnam, Iraq, Jugoslavia…)?” Questo modo di ritorcere le accuse sull’interlocutore ha il chiaro intento di fargli insorgere sensi di colpa. Ma si basa su una chiara fallacia logica. Se stiamo parlando dei massacri russi in Ucraina, stiamo parlando di crimini russi compiuti adesso, non di tutti i crimini del passato e del presente, commessi da tutte le potenze militari, dagli Usa in particolare. Da un punto di vista morale, i crimini di altri eserciti in passato, non attenuano né tanto meno cancellano le colpe dei russi nel presente. E se questo discorso ha forse senso con un interlocutore americano (“da che pulpito viene la predica”), con un interlocutore italiano diventa solo un modo di cambiare discorso. O peggio ancora: di instillare nell’interlocutore l’idea nichilista secondo cui tutti sono colpevoli, quindi nessuno ha colpa. Inutile soffermarsi, dunque. Basta rispondere, pacatamente, serenamente: sei fuori tema.
Ma se vogliamo proprio soffermarci, almeno cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando.
Iraq: gli americani, che non avevano particolare simpatia per il regime di Saddam Hussein, lo tolleravano (anche perché combatteva contro l’Iran di Khomeini, che era ancora peggio). Non mossero un dito quando l’istrionico autocrate nazional-socialista usò le armi chimiche contro gli iraniani, poi le impiegò addirittura contro i civili curdi, usando anche elicotteri da trasporto che gli americani gli avevano venduto. I curdi subirono un genocidio che in tre anni costò loro da 50 mila a 180 mila vittime, a seconda delle stime. Gli americani si mossero, invocati soprattutto dai sauditi, solo quando Saddam invase, di punto in bianco, il Kuwait nell’agosto 1990. A quel punto, dato che minacciava la fonte petrolifera di tutto il mondo nel Golfo Persico, gli americani non rimasero più a guardare. Misero in piedi una coalizione mondiale. E dopo sei mesi di estenuanti trattative, mossero guerra a Saddam. Finito il conflitto con un armistizio, Saddam abbandonò il Kuwait e accettò una parziale smilitarizzazione, fra cui la rinuncia alle armi chimiche (che aveva usato contro i curdi). Nel marzo 1991, però, riprese subito a uccidere: decine di migliaia di vittime civili fra gli sciiti che si erano ribellati, almeno 25 mila secondo le stime più prudenti. E gli americani non intervennero.
La guerra scoppiò di nuovo solo nel 1998, quando, disattendendo le clausole armistiziali, Saddam Hussein decise di espellere tutti gli ispettori internazionali che avrebbero dovuto garantire lo smantellamento delle armi chimiche. Bill Clinton condusse due campagne aeree contro il dittatore, una nel 1998 (operazione Desert Fox) e una nel 1999 (Silver Fox), poi passò il dossier al successore George W. Bush. Questi, decisamente meno propenso ad intervenire, dovette cambiare idea dopo che, subìti gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, dovette affrontare un Saddam più bellicoso che mai. Saddam avrebbe dovuto aprire le porte agli ispettori, l’onere della prova spettava a lui. Non solo non lo fece, ma alzò ulteriormente i toni della retorica anti-occidentale: lui, laico, si presentò in pubblico come capofila della causa jihadista. Dopo due anni di negoziati si arrivò infine alla resa dei conti nel 2003, con l’ingresso degli anglo-americani in Iraq e la deposizione del dittatore (poi impiccato dagli iracheni tre anni dopo). Può essere una scelta discutibile, criticabile, condannabile sul piano politico, una figuraccia sul piano comunicativo perché gli anglo-americani non poterono mai dimostrare l’esistenza di armi di distruzione di massa che non vennero trovate, almeno non in territorio iracheno. Ma non fu un’invasione immotivata, bensì la fine di una crisi scatenata da Saddam Hussein sin dal 1990 con l’invasione del Kuwait e la ripresa delle ostilità nel 1998 con la cacciata degli ispettori.
Chi chiede provocatoriamente “e l’Iraq” tira però un tratto di penna su tutti i crimini di Saddam Hussein. Ma in compenso ingigantisce le sofferenze inflitte dagli americani agli iracheni. C’è chi parla di “genocidio” e di “1 milione di iracheni uccisi”. Secondo Iraq Body Count, tutte le vittime civili furono da 186 mila a 209 mila, dal 2003 ad oggi, di cui solo una minoranza imputabili agli americani (circa 13 mila in tutto, inclusi i sospetti terroristi). Tutti gli altri sono vittime delle violenze settarie irachene o assassinati da terroristi islamici. Il vero genocidio, l’unico che può essere considerato tale, fu quello commesso da Saddam Hussein, finché era al potere. Dobbiamo veramente sentirci in colpa per l’Iraq?
Jugoslavia: in estrema sintesi, fu una serie di guerre civili dovute alla dissoluzione della Jugoslavia, dove gli americani intervennero due volte, brevemente e con interventi solo aerei, nel 1995 e nel 1999. E così facendo posero fine ad un massacro che pareva veramente senza via d’uscita. Anche qui è bene ricordare chi diede inizio alla violenza. Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina dichiararono la loro indipendenza dalla Jugoslavia sulla base di un loro diritto costituzionalmente garantito. L’ultimo presidente della Serbia (una delle repubbliche della Jugoslavia, con pari diritti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia) forzò un intervento armato, per stroncare gli indipendentismi sul nascere e per dividere i nuovi Stati al loro interno, alimentando l’insurrezione delle minoranze serbe. L’intervento condotto sia da truppe regolari jugoslave che da milizie serbe (armate dall’esercito regolare) venne condotto con incredibile spietatezza. Prima ai danni dei croati, poi soprattutto dei bosniaci, vennero condotte operazioni di pulizia etnica: intere città e regioni vennero svuotate con la forza dei loro abitanti. Circa 6.300 civili croati e 41.500 bosniaci vennero assassinati dalle forze serbe e jugoslave in tre anni e mezzo di conflitto. Nomi come Zepa, Gorazde e soprattutto Srebrenica, ricordano a tutta l’Europa i grandi massacri commessi dai serbi, quelli per cui Milosevic e i suoi uomini locali, Karadzic e Mladic, finirono sotto processo all’Aja. L’intervento della Nato nell’estate del 1995, avvenuto con il consenso dell’Onu, ebbe almeno il pregio di porre fine al conflitto, costringendo Milosevic ad accettare gli accordi di Dayton.
La pace fu più che altro una tregua, perché Milosevic, dal 1997 presidente della Jugoslavia (o meglio, di quel che ne restava) intensificò la repressione nel Kosovo, regione abitata da una popolazione che al 90 per cento era albanese, ma che era parte integrante della Serbia, considerata per motivi storici la culla della Serbia e l’epicentro del nazionalismo di Milosevic. C’è una fittissima coltre negazionista sui massacri dei kosovari albanesi del 1998-99. Eppure, secondo le stime più attendibili, i serbi assassinarono 8.700 civili. “Le fosse comuni non si trovano”, in Kosovo: vennero seppelliti o occultati in territorio serbo. La Nato intervenne di nuovo, stavolta senza il consenso dell’Onu, a causa dell’opposizione della Russia, ma con il consenso dell’Ue. L’intervento fu molto massiccio e costò ai civili serbi circa 500 vittime, soprattutto a Belgrado (da 489 a 528, secondo Human Rights Watch). Ma fermò il massacro del Kosovo. Di lì a un anno, la rivoluzione serba pose fine al regime di Milosevic e con esso finirono le guerre nei Balcani, che già ci parevano infinite, come quelle del Medio Oriente. Ci dobbiamo sentire noi in colpa per il bagno di sangue nella ex Jugoslavia?
E allora la Libia. Parliamo della Libia, ma soprattutto parliamo di Gheddafi, che oggi sembra essere rimpianto soprattutto dagli italiani. Gheddafi, tanto per cominciare, scacciò tutti gli italiani dalla Libia, sequestrando le loro proprietà arbitrariamente. Indisse un giorno all’anno dedicato all’odio contro gli italiani, ex colonizzatori, in cui anche i cimiteri dei nostri concittadini defunti venivano profanati. La Libia di Gheddafi fu l’unico Stato, dal 1945, che provò a bombardare l’Italia, lanciando missili su Lampedusa, come rappresaglia per il raid aereo americano su Tripoli, il 15 aprile 1986. Gheddafi fu fieramente sponsor di tutti i gruppi terroristici di estrema sinistra. Ed è ritenuto direttamente responsabile per l’uccisione della poliziotta inglese Yvonne Fletcher, uccisa di fronte all’ambasciata libica a Londra durante una manifestazione di dissidenti esuli libici. Dell’attentato alla discoteca La Belle di Berlino (frequentata dagli americani), del 5 aprile 1986: 3 morti e 229 feriti. Della strage di Lockerbie, il 21 dicembre 1988: una bomba sul volo Pan Am 103 che uccise tutti le 259 persone che erano a bordo. E della strage del Niger del 19 settembre 1989: 170 morti a bordo del volo UTA 772. E non è ancora stato calcolato con precisione il numero delle vittime di regime all’interno della Libia: i massacri dei prigionieri, la persecuzione degli immigrati africani sub-sahariani, i crimini commessi durante la breve guerra con il Ciad, la sistematica repressione politica e la violenza contro le tribù rivali.
Gli Usa e i loro alleati lasciarono fare. Anzi, dai primi anni 2000, soprattutto dopo la guerra contro l’Iraq del 2003, quando Gheddafi rinunciò al suo programma di armi di distruzione di massa, tutti i Paesi occidentali trovarono un modus vivendi pacifico con il vecchio sponsor del terrorismo. L’intervento della Nato, nel 2011, avvenne, dietro approvazione dell’Onu per un’istituzione di una no-fly zone (neppure la Russia votò contro, in quella circostanza), solo quando, da un mese, in Libia si stava combattendo una guerra civile, iniziata a seguito di una ribellione contro il dittatore. E Gheddafi già prometteva di trasformarla in un massacro senza pari. Dobbiamo sentirci noi responsabili del bagno di sangue in Libia?
I sensi di colpa possono insorgere nell’interlocutore filo-americano, solo se: non conosce assolutamente la storia recente, oppure aderisce ad una narrazione negazionista. Il più delle volte: è il negazionismo che fa la parte del leone. Contrariamente al passato, il negazionismo non si rivolge solo alla ricostruzione degli eventi, ma avviene in contemporanea agli eventi. Nel 1991, già la stampa ostile agli Usa (soprattutto di sinistra) cancellava con un tratto di penna tutti i crimini di Saddam. Nel 1995 e nel 1999, non solo la stampa di sinistra, ma anche la pubblicistica della destra sociale (e della Lega di allora) negava fermamente i crimini di Milosevic e ingigantiva, quantomeno enfatizzava, quelli dei suoi nemici croati, bosniaci e albanesi. Nel 2011, soprattutto la stampa di destra ha assolto Gheddafi di tutte le sue colpe del passato e ha fatto di tutto per dimostrare che non stesse commettendo crimini nella guerra civile. Oggi soprattutto la stampa di destra sta negando i crimini di Putin. In questo modo, non solo la storia, ma la stessa memoria collettiva viene cancellata e riscritta. Ad uso e consumo dei dittatori, sempre e comunque per aizzarci contro gli Stati Uniti.
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